Summer Hits
A roll of film exposures narrated both with a visual layer and through a text.
Two very different narratives which, combined, are trying to be more inclusive.
Pictures were taken on commission by Lomography with their Earl Grey 100 film.
Settembre, penso fosse il 3. Le amiche di Zélie sono arrivate in due ondate. Eravamo tutte a Bassano, al 33, il bed and breakfast di mia mamma. È un bel luogo, conviviale. Ci sono delle complicazioni di abitabilità ma alla fine riusciamo sempre a gestirle abbastanza bene.
L’occasione di questa piacevole invasione era la grande festa di fine estate. A noi piace fare le feste. Ci piace piace piace. Ci piace ballare. Stare insieme.
Faceva ancora molto caldo, eravamo già in 7-8, perché le amiche di Zélie arrivavano da Parigi e giustamente volevano cogliere l’occasione di sconnettersi qualche giorno in Italia.
Come un tempo sospeso. Voce del verbo chillare.
La sera del 3 abbiamo deciso di andare a fare aperitivo alla Contrà Soarda. Una bellissima azienda vinicola che apre anche come bar tra le vigne sulle colline verso San Michele. A piedi dal centro di Bassano ci vorranno 40 min. Dimitri ha portato la chitarra che ci era stata prestata da Federica. Vino colline e chitarra. Che vita bohème. È passata pure Giovanna a cantarci una serenata napoletana. Era lì con un altro gruppo.
Saremmo state in 8, abbiamo bevuto non so bene quante bottiglie di vino. Ad una certa cantavano talmente forte che ero quasi a disagio per le altre persone venute a bersi l’aperitivo. Mi faccio troppi problemi. O forse no?
Il piano era cenare con una deliziosa pizza, sono tornata assieme a Eugene, Julia, Lyson e Sebastian per recuperare queste pizzone in macchina, mentre le altre ci avrebbero raggiunte a casa a piedi. Proprio mentre ci infiliamo in macchina arriva la pioggia.
Non ricordo perché Eugene si fosse tolto le scarpe. E ancora meno perché io l'abbia fotografato. Beh sono sempre sorpresa quando vedo persone scalze fuori. Mi piace, mi piace chi lo fa. Se vedo una persona scalza in giro per una città o anche in natura, penso che vorrei conoscerla.
Intrigante spavalderia, introspezione. Peccato che a Eugene ho tagliato i piedi nella fotografia hehehe.
Le ragazze sono finalmente arrivate, bombe. Avevano attraversato il ponte vecchio di corsa, felici, mezze nude. Chi in mutande, chi in reggiseno. Mi è dispiaciuto non assistere, dev’essere stata una scena fenomenale. Sono arrivate con una carica che subito dopo aver divorato la pizza si è scaricata su un dancefloor improvvisato in cucina. Cesar e Dimitri spassosissime. Sento Queen, I want to break free. Ad una certa è arrivata un’altra parte di amiche parigine di Zélie. Esaltazione in sala, parevano il fanclub dei Queen quando questi fanno la loro entrata sul palcoscenico. L’immagine non trasporta il suono.
La festa era l’indomani. Quel giorno ero troppo impegnata a ballare per immortalare. Non è vero, ma ho fatto poche foto con una macchinetta per brumbrum, la mia attività pseudo-lucrativa-passionale. Geniale fare festa e lavorare allo stesso tempo, mi sono proprio organizzata bene. Il lavoro consiste nel testare le macchine, per testare le macchine bisogna scattare fotografie.
La festa è stato uno spasso atomico, tema Stranger Things, praticamente tutte le invitate si sono state al gioco. Pareva una festa di adolescenti. abbiamo ballato come matte. Io ero scalza ed ero talmente tanto matta ballerina che mi sono rotta l’alluce del piede destro. Non ricordo come, ti dirò... Ma ho continuato a ballare, ancora ancoraaaa. Ho messo un paio di scarpe chiuse e la festa ha proseguito sotto un concerto Hard Rock in una villa vicino a casa dove abbiamo pure pogato duro. Tornata a casa ho tolto le scarpe, constatato che il mio ditone era un pò troppo viola per non essere preoccupante. L’indomani colazione, salgo le scale e, ovviamente, voglio dire, ovviamente, ma ovviamente, sono andata a sbattere con il ditone contro il gradino. Ho pianto. Era da tanto che non piangevo per il dolore fisico. Ho constatato che non c’è età per questo. Quando fa male, fa male male, le lacrime arrivano.
C’erano i miei nonni a casa in quei giorni, venuti a trovarci dalla Francia. Mia nonna, prima di uscire con mia mamma, mi ha detto “vai a chiedere a tuo nonno che si occupi di te” con una tenerezza che non le conoscevo. Raramente la sfoggia, soprattutto non per parlare di mio nonno. Allora sono corsa! Il nonno mi ha guardata attraverso i suoi occhiali appoggiati sul naso che aveva abbassato poiché stava leggendo, ha chiuso il libro, si è alzato, ha preso le cose che gli avevo portato per medicarmi, ci siamo sedute sul tappeto e mi ha inzuppato l’alluce di pomata. Cerottato. E via.
Il mio ditone del piede. Poverino. Ma mica smetto di fare cose, soprattutto, mica smetto di muovermi. Impossibile. Ormai sono passati tre mesi e ancora ancora non gli posso far fare tutto quello che voglio a quell’osso verosimilmente fratturato. I peli sulle gambe. Che roba. Oggi chiedevo a mio papà come facessero i gatti a non congelarsi le chiappe quando escono a caccia d’inverno. Il pelo, dice. Allora mi sono detta che sono una grande furba pelosa che può vivere fuori senza congelarsi. Bene così, attraverso i Balcani in bici e tenda a gennaio mi terranno al calduccio...
Poi c’è stato questo episodio assolutamente incredibile. Oh. Incredibile. Cioè io se ci ripenso ancora non me ne capacito. Mi sembra parallelo al mondo reale.
Mia mamma è partita per una settimana. Zélie ha preso le redini del b&b. Colazioni, gestire check-in, check-out. Un lavorone estenuante.
Penso fosse il 7. Niente, scendo in cucina verso le 8.30, 9? C’erano già dei clienti che collazionavano. Mi sono seduta a capotavola con il mio caffè da moca ultra annacquato. Più americano di così, muori. Mi svegliavo piano piano. Contemplavo la profondissima cucina, al cui centro abbiamo questo bellissimo tavolo molto lungo realizzato a partire da aste di legno di vecchie impalcature, quando d’un tratto mi accorgo di una presenza improbabile. Molto discreta. Ma molto molto molto disagiante visto il contesto. All’inizio pensavo fosse un calzino. Mi domandavo come diavolo fosse finito lì. Finché non inizio a distinguere questa forma di coda tipica. Un topino, non ino ino ma neanche one, era in bilico sull’asta della lampada in fondo alla stanza. Sbianchisco. Non so cosa fare. Prego chissà che astro perché nessuno si accorga di cosa mi sono appena accorta. Realizzo quanto possa essere drammatico ma allo stesso tempo sono allibita. Allibita. In bilico, immobile, terrorizzato. Io e lui sappiamo. Ma non possiamo fare nulla. Vedo Zélie che continua l’interazione con i clienti in tutta nonchalance e mi dico che non si è accorta. Scrivo a mia madre, le racconto in live l’evoluzione della situazione. Ho il cuore che palpita.
Scendono le ultime due amiche di Zélie che partono oggi. Non riesco più a tenerlo per me, condivido con loro, di nascosto, il segreto. Zélie è al corrente e, come me, da ormai due ore, trattiene il fiato. Le clienti sono un gruppo di persone tedesche in mountain bike. Dovrebbero partire a breve ma la loro colazione è prolissa. Quando finalmente parte del gruppo lascia la cucina, arriva la ritardataria che non solo deve mangiare, ma in più vuole fare pratica di lingua Italiana con noi. Il disagio nei nostri occhi. Finalmente se ne va anche lei, rimaniamo noi e...chiamiamolo Gerry.
Ah, no, arriva Koshka (la gatta) in cucina. Non appena entrata, si è immediatamente fiondata verso la lampada. Come se avesse sempre saputo. La prendo al volo mentre sta per balzare sulla preda e la vado a rinchiudere in bagno. Si stava già leccando i baffi.
Posso quasi percepire le micro-gocce di sudore di Gerry che, da ormai 3 ore, sta immobile in bilico nel posto più in vista della cucina. Lo vedo iniziare ad agitarsi. Micro-movimenti. Corro a prendere la macchina fotografica. Uno scatto, dai un altro. Sto attenta che non arrivi nessuno mentre spara- flasho questo essere. Potrebbe essere letale. Le clienti iniziano a caricare il furgone con le loro bici, accedendo al garage di casa. Dalla cucina teniamo la situazione sotto controllo. Finché Kira (cane), Ernest (gatto bianco) e Koshka non arrivano tutte d’un colpo e iniziano a rincorrere Gerry che, preso dal panico, salta sopra al camminetto, corre da un lato, corre dall’altro, rincorso da Koshka che è pronta ad infornarlo. Nel frattempo via vai di clienti in cortile proprio dall’altro lato della porta. Siamo tutte in panico mentre assistiamo. Ma c’è questa scarica di adrenalina che mlmlmlm. Finché Gerry non si catapulta fuori dalla finestra, nelle Ortensie, rincorso da Kosha che non molla. Nessuno molla in questa storia. Ora che sono tutte fuori, siamo ancora più in panico. I clienti sono proprio lì, con il cancello aperto, vedo Gerry volare fuori dalle ortensie e buttarsi tra i piedi dei clienti mentre caricano le bici e sparire improvvisamente.
Sotto il naso di tutte, notata da nessuno. Koshka continua ad ispezionare le ortensie. Io faccio un immenso sospiro di sollievo.
Questo episodio è stato bello intenso.
Cavolo, poi, un’alto giorno ancora, ho incontrato Magic Anita sul ponte vecchio. Aveva sotto il braccio un sacco di tubi da plotter recuperati da Grafiche Antiga, dove lavora. Presto li taglierò per farne spocchiosissimi contenitori per poster di Passenans, il progetto foto-editoriale che stiamo portando avanti assieme a lei e a Cesar, mia sorella. Un magazine delizioso, il racconto visivo di una realtà in divenire circoscritta in una casa. La casa di mio padre? La nostra casa? La mia casa? Ma secondo te, quand’è che la tua casa d’infanzia smette di essere la tua casa per diventare la casa dei tuoi genitori? Di tuo padre, di tua madre? E se la tua casa d’infanzia non c’è più? E se i tuoi genitori non condividono più lo stesso tetto? C’è una casa che è più tua di un’altra? Come accade questo? E l’altra casa è meno tua? È giusto che ti ci senti meno “a casa”? E se non c’è ne l’una ne l’altra in cui senti questa sensazione, come fai a riconoscerla? Come fai a riproporla a te stessa fuori dal contesto familiare? Mi faccio molte domande a riguardo. Chissà se esistono risposte.
Guardo Koshka e Ernest e mi dico che loro sicuramente non ci sanno rispondere. Per loro, dove stanno, dove mangiano, è la loro casa.
Che pacchia essere un animale domestico.
Ho deciso di andare a Venezia. Da Bassano è facile, il treno è diretto e in poco più di un’ora puoi scendere le scale che danno sul piazzale della stazione e, attraversando due ponti, ritrovarti sommersa nella città. Dal treno, tra Spinea e Marghera c’è questo luogo che mi attrae da morire. È un luogo dove vai a tirare le frecce. C’è un orso finto in mezzo all’erba. Ogni tanto cambia disposizione. Mi affascina molto.
A Venezia ho studiato, vissuto, pensato, creato, incontrato. Mi sono innamorata, anche. Non parlo neanche degli spritz.
Ogni volta che sono qui mi domando cosa mi piaccia. Penso che la conosco bene per aver errato giorno e notte nelle sue vie negli anni passati. È un luogo strano dove abitare, dove vivere. Però mi piace ed è bella. Bella bella. Cerco sempre di mettermi nei panni di chi ci viene per la prima volta. Io non ricordo la prima volta. Ero piccolissima, penso che nemmeno abitassimo ancora in Italia. Era il viaggio di avan-scoperta. Ci sono foto di me e le mie sorelle coperte di piccioni. All’epoca c’erano ancora gli spacciatori di mais sulla piazza San Marco. Che schifo se ci penso adesso, i piccioni in testa. Ma bello averlo vissuto. Mi ricordo che alle elementari, forse anche al liceo, in classe mia o anche delle mie sorelle, c’erano persone che non avevano mai messo piede a Venezia. Ne parlavamo a casa, pensavamo “ma ti immagini?”. Noi andavamo ogni volta che parenti o amici venivano a trovarci. Tutti questi turisti. Possiamo avercela con i turisti? Io ogni tanto mi innervosisco tra le calli di Venezia perché loro sono in vacanza e io devo andare velocemente da qualche parte. Ma la strada è stretta e dobbiamo condividerla. Puoi fare a meno di condividere se conosci le stradine. Alla fine è come in una città con le macchine. Chi conosce le stradine evita il traffico. Solo che tutti siamo a piedi. Questo mi piace molto di Venezia. Che sia senza macchine. È quasi utopico ormai. Venezia non è per tutte. Non mi emoziono davanti alle gondole. Anzi, mi fanno un pò ridere. Quello che non mi fa ridere sono i gabbiani che fanno le sentinelle sopra allo Squero per rubarti i cicchetti appena esci. Lo Squero è in assoluto il mio bar preferito della città. Ho iniziato ad amarlo quando ho realizzato che una scena di James Bond, credo con Roger Moore, è girata proprio lì.
Si, sono fan di James Bond. È successo, non posso farci nulla.
Un mese dopo, il 12 ottobre, tornata dalla mia pedalata Bassano-Monaco per l’Oktoberfest e altri bellissimi avvenimenti non impressionati su questa pellicola, Giovanna mi propone di andare in gita con i suoi nonni a caccia di funghi. Incredibile esperienza, grazie Giovanna per aver condiviso con me questo avvenimento intra-famigliare, mi sono sentita molto fortunata. Pranzetto nel rifugio del monte grappa, con Giovanna ci siamo smezzate bigoli al ragù di cervo e immancabile formaggio fuso con polenta e funghi. Il nostro must in assoluto. Paradiso.
Abbiamo raccolto tanti, tantissimi funghi. Ie nonne di Giovanna sono impazzite, come drogate. La nonna Anna ha una vista bionica, dalla macchina riesce a identificarli e a gridare FERMA! a Giovanna, che si ferma istantaneamente. Inchioda secco robe che ci ribaltiamo. Una mina d’oro. Saremmo state lì una buona mezz’ora a raccogliere queste montagne di funghi. Momentino panico, il nonno scompare tra gli arbusti, perdita di equilibrio, si era ritrovato a terra la testa nei rovi. L’abbiamo soccorso, per fortuna tutto bene.
Tornate a casa facciamo uno smistamento del bottino. Me ne danno una parte da portare a casa in un cesto di vimini. Anna è felicissima. Penso che lo siamo tutte.
Più di un mese dopo questo episodio, riprendo in mano questa Konica, determinata a terminare questa pellicola. Non c’è più tempo, a breve parto, devo riconsegnarla prima.
25 novembre? Direi di si. Sono di nuovo a casa, al 33, dopo quasi due settimane in Francia. Ho visto Parigi, ho visto Bruxelles, ho visto Gand. Incredibile viaggio. Osservo la luce rimbalzare sulle finestre della camera che abito e che attualmente è lo spazio più mio del mondo. È arrivato il freddo e bisogna chiuderle ora. Le apro perché, per la prima volta, sconvolgendomi, mia madre ha fatto pulire la stanza prima che arrivassi. Cornelia, la persona che si occupa delle pulizie al b&b, ha passato il moccio in camera. Tutto era chiuso, non si sarebbe mai asciutto. Ho aperto e sono stata ferma. Allora ho visto questa luce che rimbalzava. Morbidissima.
Qualche giorno dopo sono tornata da Venezia, dove mi ero fiondata prima che la biennale finisse, assieme ad Oleksandra. Il tempo non era ottimo ma abbiamo portato fuori le cagne lungo Brenta. Kira e Tonia. Madre e figlia. Chi se ne frega dei cani, non sono particolarmente sensibile a loro. Sono molto più gattara. Però Kira è un’eccezione. Oleksandra con i due cani al guinzaglio, sembrava la regina cattiva di Narnia, stile...Balenciaga avevo detto (?). Si una roba del genere. Una situa un pò badass. Io credo che lei sia un pò badass. Era a zonzo già da diversi giorni, con un sacco di valigie piene di vestiti. Abbiamo fatto una lavatrice, le ho prestato un pigiama, niente di meglio che una camicia da notte da nonna. Io l’avevo usata per la famosa festa tema Stranger Things del 4 settembre di cui parlavo all’inizio del racconto, quella in cui mi sono rotta un dito. Impersonavo Eleven, la ragazza con i super- poteri con gli occhi sanguinolenti nel momento potentissimo in cui fa fuori Vecna, il mostro cattivo. Lei è in camice da ospedale, non ho trovato alternativa migliore, ero credibilissima. Ad Oleksandra stava bene indosso. Ho sviluppato il negativo e prima che fosse del tutto asciutto l’ho rovesciato e OPS, effetto lumaca. Mi piace.
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Summer Hits
A roll of film exposures narrated both with a visual layer and through a text.
Two very different narratives which, combined, are trying to be more inclusive.
Pictures were taken on commission by Lomography with their Earl Grey 100 film
Settembre, penso fosse il 3. Le amiche di Zélie sono arrivate in due ondate. Eravamo tutte a Bassano, al 33, il bed and breakfast di mia mamma. È un bel luogo, conviviale. Ci sono delle complicazioni di abitabilità ma alla fine riusciamo sempre a gestirle abbastanza bene.
L’occasione di questa piacevole invasione era la grande festa di fine estate. A noi piace fare le feste. Ci piace piace piace. Ci piace ballare. Stare insieme.
Faceva ancora molto caldo, eravamo già in 7-8, perché le amiche di Zélie arrivavano da Parigi e giustamente volevano cogliere l’occasione di sconnettersi qualche giorno in Italia.
Come un tempo sospeso. Voce del verbo chillare.
La sera del 3 abbiamo deciso di andare a fare aperitivo alla Contrà Soarda. Una bellissima azienda vinicola che apre anche come bar tra le vigne sulle colline verso San Michele. A piedi dal centro di Bassano ci vorranno 40 min. Dimitri ha portato la chitarra che ci era stata prestata da Federica. Vino colline e chitarra. Che vita bohème. È passata pure Giovanna a cantarci una serenata napoletana. Era lì con un altro gruppo.
Saremmo state in 8, abbiamo bevuto non so bene quante bottiglie di vino. Ad una certa cantavano talmente forte che ero quasi a disagio per le altre persone venute a bersi l’aperitivo. Mi faccio troppi problemi. O forse no?
Il piano era cenare con una deliziosa pizza, sono tornata assieme a Eugene, Julia, Lyson e Sebastian per recuperare queste pizzone in macchina, mentre le altre ci avrebbero raggiunte a casa a piedi. Proprio mentre ci infiliamo in macchina arriva la pioggia.
Non ricordo perché Eugene si fosse tolto le scarpe. E ancora meno perché io l'abbia fotografato. Beh sono sempre sorpresa quando vedo persone scalze fuori. Mi piace, mi piace chi lo fa. Se vedo una persona scalza in giro per una città o anche in natura, penso che vorrei conoscerla.
Intrigante spavalderia, introspezione. Peccato che a Eugene ho tagliato i piedi nella fotografia hehehe.
Le ragazze sono finalmente arrivate, bombe. Avevano attraversato il ponte vecchio di corsa, felici, mezze nude. Chi in mutande, chi in reggiseno. Mi è dispiaciuto non assistere, dev’essere stata una scena fenomenale. Sono arrivate con una carica che subito dopo aver divorato la pizza si è scaricata su un dancefloor improvvisato in cucina. Cesar e Dimitri spassosissime. Sento Queen, I want to break free. Ad una certa è arrivata un’altra parte di amiche parigine di Zélie. Esaltazione in sala, parevano il fanclub dei Queen quando questi fanno la loro entrata sul palcoscenico. L’immagine non trasporta il suono.
La festa era l’indomani. Quel giorno ero troppo impegnata a ballare per immortalare. Non è vero, ma ho fatto poche foto con una macchinetta per brumbrum, la mia attività pseudo-lucrativa-passionale. Geniale fare festa e lavorare allo stesso tempo, mi sono proprio organizzata bene. Il lavoro consiste nel testare le macchine, per testare le macchine bisogna scattare fotografie.
La festa è stato uno spasso atomico, tema Stranger Things, praticamente tutte le invitate si sono state al gioco. Pareva una festa di adolescenti. abbiamo ballato come matte. Io ero scalza ed ero talmente tanto matta ballerina che mi sono rotta l’alluce del piede destro. Non ricordo come, ti dirò... Ma ho continuato a ballare, ancora ancoraaaa. Ho messo un paio di scarpe chiuse e la festa ha proseguito sotto un concerto Hard Rock in una villa vicino a casa dove abbiamo pure pogato duro. Tornata a casa ho tolto le scarpe, constatato che il mio ditone era un pò troppo viola per non essere preoccupante. L’indomani colazione, salgo le scale e, ovviamente, voglio dire, ovviamente, ma ovviamente, sono andata a sbattere con il ditone contro il gradino. Ho pianto. Era da tanto che non piangevo per il dolore fisico. Ho constatato che non c’è età per questo. Quando fa male, fa male male, le lacrime arrivano.
C’erano i miei nonni a casa in quei giorni, venuti a trovarci dalla Francia. Mia nonna, prima di uscire con mia mamma, mi ha detto “vai a chiedere a tuo nonno che si occupi di te” con una tenerezza che non le conoscevo. Raramente la sfoggia, soprattutto non per parlare di mio nonno. Allora sono corsa! Il nonno mi ha guardata attraverso i suoi occhiali appoggiati sul naso che aveva abbassato poiché stava leggendo, ha chiuso il libro, si è alzato, ha preso le cose che gli avevo portato per medicarmi, ci siamo sedute sul tappeto e mi ha inzuppato l’alluce di pomata. Cerottato. E via.
Il mio ditone del piede. Poverino. Ma mica smetto di fare cose, soprattutto, mica smetto di muovermi. Impossibile. Ormai sono passati tre mesi e ancora ancora non gli posso far fare tutto quello che voglio a quell’osso verosimilmente fratturato. I peli sulle gambe. Che roba. Oggi chiedevo a mio papà come facessero i gatti a non congelarsi le chiappe quando escono a caccia d’inverno. Il pelo, dice. Allora mi sono detta che sono una grande furba pelosa che può vivere fuori senza congelarsi. Bene così, attraverso i Balcani in bici e tenda a gennaio mi terranno al calduccio...
Poi c’è stato questo episodio assolutamente incredibile. Oh. Incredibile. Cioè io se ci ripenso ancora non me ne capacito. Mi sembra parallelo al mondo reale.
Mia mamma è partita per una settimana. Zélie ha preso le redini del b&b. Colazioni, gestire check-in, check-out. Un lavorone estenuante.
Penso fosse il 7. Niente, scendo in cucina verso le 8.30, 9? C’erano già dei clienti che collazionavano. Mi sono seduta a capotavola con il mio caffè da moca ultra annacquato. Più americano di così, muori. Mi svegliavo piano piano. Contemplavo la profondissima cucina, al cui centro abbiamo questo bellissimo tavolo molto lungo realizzato a partire da aste di legno di vecchie impalcature, quando d’un tratto mi accorgo di una presenza improbabile. Molto discreta. Ma molto molto molto disagiante visto il contesto. All’inizio pensavo fosse un calzino. Mi domandavo come diavolo fosse finito lì. Finché non inizio a distinguere questa forma di coda tipica. Un topino, non ino ino ma neanche one, era in bilico sull’asta della lampada in fondo alla stanza. Sbianchisco. Non so cosa fare. Prego chissà che astro perché nessuno si accorga di cosa mi sono appena accorta. Realizzo quanto possa essere drammatico ma allo stesso tempo sono allibita. Allibita. In bilico, immobile, terrorizzato. Io e lui sappiamo. Ma non possiamo fare nulla. Vedo Zélie che continua l’interazione con i clienti in tutta nonchalance e mi dico che non si è accorta. Scrivo a mia madre, le racconto in live l’evoluzione della situazione. Ho il cuore che palpita.
Scendono le ultime due amiche di Zélie che partono oggi. Non riesco più a tenerlo per me, condivido con loro, di nascosto, il segreto. Zélie è al corrente e, come me, da ormai due ore, trattiene il fiato. Le clienti sono un gruppo di persone tedesche in mountain bike. Dovrebbero partire a breve ma la loro colazione è prolissa. Quando finalmente parte del gruppo lascia la cucina, arriva la ritardataria che non solo deve mangiare, ma in più vuole fare pratica di lingua Italiana con noi. Il disagio nei nostri occhi. Finalmente se ne va anche lei, rimaniamo noi e...chiamiamolo Gerry.
Ah, no, arriva Koshka (la gatta) in cucina. Non appena entrata, si è immediatamente fiondata verso la lampada. Come se avesse sempre saputo. La prendo al volo mentre sta per balzare sulla preda e la vado a rinchiudere in bagno. Si stava già leccando i baffi.
Posso quasi percepire le micro-gocce di sudore di Gerry che, da ormai 3 ore, sta immobile in bilico nel posto più in vista della cucina. Lo vedo iniziare ad agitarsi. Micro-movimenti. Corro a prendere la macchina fotografica. Uno scatto, dai un altro. Sto attenta che non arrivi nessuno mentre spara- flasho questo essere. Potrebbe essere letale. Le clienti iniziano a caricare il furgone con le loro bici, accedendo al garage di casa. Dalla cucina teniamo la situazione sotto controllo. Finché Kira (cane), Ernest (gatto bianco) e Koshka non arrivano tutte d’un colpo e iniziano a rincorrere Gerry che, preso dal panico, salta sopra al camminetto, corre da un lato, corre dall’altro, rincorso da Koshka che è pronta ad infornarlo. Nel frattempo via vai di clienti in cortile proprio dall’altro lato della porta. Siamo tutte in panico mentre assistiamo. Ma c’è questa scarica di adrenalina che mlmlmlm. Finché Gerry non si catapulta fuori dalla finestra, nelle Ortensie, rincorso da Kosha che non molla. Nessuno molla in questa storia. Ora che sono tutte fuori, siamo ancora più in panico. I clienti sono proprio lì, con il cancello aperto, vedo Gerry volare fuori dalle ortensie e buttarsi tra i piedi dei clienti mentre caricano le bici e sparire improvvisamente.
Sotto il naso di tutte, notata da nessuno. Koshka continua ad ispezionare le ortensie. Io faccio un immenso sospiro di sollievo.
Questo episodio è stato bello intenso.
Cavolo, poi, un’alto giorno ancora, ho incontrato Magic Anita sul ponte vecchio. Aveva sotto il braccio un sacco di tubi da plotter recuperati da Grafiche Antiga, dove lavora. Presto li taglierò per farne spocchiosissimi contenitori per poster di Passenans, il progetto foto-editoriale che stiamo portando avanti assieme a lei e a Cesar, mia sorella. Un magazine delizioso, il racconto visivo di una realtà in divenire circoscritta in una casa. La casa di mio padre? La nostra casa? La mia casa? Ma secondo te, quand’è che la tua casa d’infanzia smette di essere la tua casa per diventare la casa dei tuoi genitori? Di tuo padre, di tua madre? E se la tua casa d’infanzia non c’è più? E se i tuoi genitori non condividono più lo stesso tetto? C’è una casa che è più tua di un’altra? Come accade questo? E l’altra casa è meno tua? È giusto che ti ci senti meno “a casa”? E se non c’è ne l’una ne l’altra in cui senti questa sensazione, come fai a riconoscerla? Come fai a riproporla a te stessa fuori dal contesto familiare? Mi faccio molte domande a riguardo. Chissà se esistono risposte.
Guardo Koshka e Ernest e mi dico che loro sicuramente non ci sanno rispondere. Per loro, dove stanno, dove mangiano, è la loro casa.
Che pacchia essere un animale domestico.
Ho deciso di andare a Venezia. Da Bassano è facile, il treno è diretto e in poco più di un’ora puoi scendere le scale che danno sul piazzale della stazione e, attraversando due ponti, ritrovarti sommersa nella città. Dal treno, tra Spinea e Marghera c’è questo luogo che mi attrae da morire. È un luogo dove vai a tirare le frecce. C’è un orso finto in mezzo all’erba. Ogni tanto cambia disposizione. Mi affascina molto.
A Venezia ho studiato, vissuto, pensato, creato, incontrato. Mi sono innamorata, anche. Non parlo neanche degli spritz.
Ogni volta che sono qui mi domando cosa mi piaccia. Penso che la conosco bene per aver errato giorno e notte nelle sue vie negli anni passati. È un luogo strano dove abitare, dove vivere. Però mi piace ed è bella. Bella bella. Cerco sempre di mettermi nei panni di chi ci viene per la prima volta. Io non ricordo la prima volta. Ero piccolissima, penso che nemmeno abitassimo ancora in Italia. Era il viaggio di avan-scoperta. Ci sono foto di me e le mie sorelle coperte di piccioni. All’epoca c’erano ancora gli spacciatori di mais sulla piazza San Marco. Che schifo se ci penso adesso, i piccioni in testa. Ma bello averlo vissuto. Mi ricordo che alle elementari, forse anche al liceo, in classe mia o anche delle mie sorelle, c’erano persone che non avevano mai messo piede a Venezia. Ne parlavamo a casa, pensavamo “ma ti immagini?”. Noi andavamo ogni volta che parenti o amici venivano a trovarci. Tutti questi turisti. Possiamo avercela con i turisti? Io ogni tanto mi innervosisco tra le calli di Venezia perché loro sono in vacanza e io devo andare velocemente da qualche parte. Ma la strada è stretta e dobbiamo condividerla. Puoi fare a meno di condividere se conosci le stradine. Alla fine è come in una città con le macchine. Chi conosce le stradine evita il traffico. Solo che tutti siamo a piedi. Questo mi piace molto di Venezia. Che sia senza macchine. È quasi utopico ormai. Venezia non è per tutte. Non mi emoziono davanti alle gondole. Anzi, mi fanno un pò ridere. Quello che non mi fa ridere sono i gabbiani che fanno le sentinelle sopra allo Squero per rubarti i cicchetti appena esci. Lo Squero è in assoluto il mio bar preferito della città. Ho iniziato ad amarlo quando ho realizzato che una scena di James Bond, credo con Roger Moore, è girata proprio lì.
Si, sono fan di James Bond. È successo, non posso farci nulla.
Un mese dopo, il 12 ottobre, tornata dalla mia pedalata Bassano-Monaco per l’Oktoberfest e altri bellissimi avvenimenti non impressionati su questa pellicola, Giovanna mi propone di andare in gita con i suoi nonni a caccia di funghi. Incredibile esperienza, grazie Giovanna per aver condiviso con me questo avvenimento intra-famigliare, mi sono sentita molto fortunata. Pranzetto nel rifugio del monte grappa, con Giovanna ci siamo smezzate bigoli al ragù di cervo e immancabile formaggio fuso con polenta e funghi. Il nostro must in assoluto. Paradiso.
Abbiamo raccolto tanti, tantissimi funghi. Ie nonne di Giovanna sono impazzite, come drogate. La nonna Anna ha una vista bionica, dalla macchina riesce a identificarli e a gridare FERMA! a Giovanna, che si ferma istantaneamente. Inchioda secco robe che ci ribaltiamo. Una mina d’oro. Saremmo state lì una buona mezz’ora a raccogliere queste montagne di funghi. Momentino panico, il nonno scompare tra gli arbusti, perdita di equilibrio, si era ritrovato a terra la testa nei rovi. L’abbiamo soccorso, per fortuna tutto bene.
Tornate a casa facciamo uno smistamento del bottino. Me ne danno una parte da portare a casa in un cesto di vimini. Anna è felicissima. Penso che lo siamo tutte.
Più di un mese dopo questo episodio, riprendo in mano questa Konica, determinata a terminare questa pellicola. Non c’è più tempo, a breve parto, devo riconsegnarla prima.
25 novembre? Direi di si. Sono di nuovo a casa, al 33, dopo quasi due settimane in Francia. Ho visto Parigi, ho visto Bruxelles, ho visto Gand. Incredibile viaggio. Osservo la luce rimbalzare sulle finestre della camera che abito e che attualmente è lo spazio più mio del mondo. È arrivato il freddo e bisogna chiuderle ora. Le apro perché, per la prima volta, sconvolgendomi, mia madre ha fatto pulire la stanza prima che arrivassi. Cornelia, la persona che si occupa delle pulizie al b&b, ha passato il moccio in camera. Tutto era chiuso, non si sarebbe mai asciutto. Ho aperto e sono stata ferma. Allora ho visto questa luce che rimbalzava. Morbidissima.
Qualche giorno dopo sono tornata da Venezia, dove mi ero fiondata prima che la biennale finisse, assieme ad Oleksandra. Il tempo non era ottimo ma abbiamo portato fuori le cagne lungo Brenta. Kira e Tonia. Madre e figlia. Chi se ne frega dei cani, non sono particolarmente sensibile a loro. Sono molto più gattara. Però Kira è un’eccezione. Oleksandra con i due cani al guinzaglio, sembrava la regina cattiva di Narnia, stile...Balenciaga avevo detto (?). Si una roba del genere. Una situa un pò badass. Io credo che lei sia un pò badass. Era a zonzo già da diversi giorni, con un sacco di valigie piene di vestiti. Abbiamo fatto una lavatrice, le ho prestato un pigiama, niente di meglio che una camicia da notte da nonna. Io l’avevo usata per la famosa festa tema Stranger Things del 4 settembre di cui parlavo all’inizio del racconto, quella in cui mi sono rotta un dito. Impersonavo Eleven, la ragazza con i super- poteri con gli occhi sanguinolenti nel momento potentissimo in cui fa fuori Vecna, il mostro cattivo. Lei è in camice da ospedale, non ho trovato alternativa migliore, ero credibilissima. Ad Oleksandra stava bene indosso. Ho sviluppato il negativo e prima che fosse del tutto asciutto l’ho rovesciato e OPS, effetto lumaca. Mi piace.
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